CON IVO omaggio al Maestro Ivo Scaringi . Dal 1 al 31Dicembre 2018 Galleria C.D’Arte Michelangiolo di TRANI
COLLETTIVA D’ARTE CONTEMPORANEA
CON IVO omaggio al Maestro Ivo Scaringi
Espongono gli artisti:
Magdalena ASTERI Luigi BASILE
Mario COLONNA Antonio LAURELLI Nicola LISANTI Benito GALLO MARESCA
Massimo NARDI Ivo SCARINGI
Inaugurazione 1 dicembre 2018 ore 18:30
Intervento critico su Ivo Scaringi di Carmelo
Cipriani
Dal 1 al 31Dicembre 2018
Galleria C.D’Arte Michelangiolo
Via Giovanni Bovio, 186 - 76125 TRANI (BT)
TELEFONO PER INFORMAZIONI: email: 0883 582231 -
cell: 340 1541925 / 346 6062784
catalogo editore Arti Grafiche Favia S. R. L.
impostazione grafica di Massimo Nardi
testi in catalogo di Carmelo Cipriani, Nicola
Scaringi, Antonio Ladogana
Ivo Scaringi
IL
REALISMO ESISTENZIALE DI IVO SCARINGI TRA INQUIETUDINI FIGURATIVE E PROPENSIONI
COSTRUTTIVE
Carmelo
Cipriani
Succede di rado che gli artisti, in sede
espositiva, abdichino al ruolo di protagonisti per ricordarne un altro, il più
delle volte un maestro. Quando ciò accade l’occasione si rivela propizia ben
oltre la pura commemorazione, divenendo pretesto di studio, di approfondimento
e – ci si augura – di valorizzazione. L’occasione è data spesso dalla
scomparsa, da un anniversario o da una ricorrenza, ma non mancano i casi in cui
a dettarne la genesi è la pura necessità del ricordo, quel bisogno impellente
di celebrare un antesignano, ma anche più semplicemente un amico. Ed è
quest’ultimo il caso che ha spinto sette pittori nativi o attivi nell’alta
Terra di Bari (Magdalena Asteri, Luigi Basile, Mario Colonna, Benito Gallo
Maresca, Antonio Laurelli, Nicola Lisanti, Massimo Nardi) a celebrare Ivo
Scaringi, pittore pugliese tra i più sensibili della sua epoca. Hanno deciso di
farlo nella Galleria Michelangelo a Trani, città natale dell’artista, a cui i
familiari hanno concesso l’esposizione permanente di un consistente nucleo di
opere, determinando la nascita in loco di una pinacoteca a lui intitolata.
Sensibile interprete della realtà pugliese
oltre che aggiornato protagonista di quanto in regione e fuori si andava
producendo, Ivo Scaringi ha saputo leggere e rappresentare il proprio tempo,
non rifugiandosi in una posizione di riottoso rigetto, spesso elitaria ed
inefficace in ambito civile, ma agendo saldamente all’interno di quella stessa
realtà che si voleva denunciare così da inciderne le vicende e cambiarne,
magari, le sorti. Egli ha operato da solo e in gruppo, promuovendo la sua
pittura ma anche quella dei suoi colleghi e sodali, che con lui hanno condiviso
pensieri ed esperienze.
La vicenda umana e artistica di Scaringi si
colloca nella vasta e complessa cornice del secondo dopoguerra in cui alla
macro-opposizione tra astratto e figurativo (politica oltre che estetica) si
affiancano le divergenze interne tra informale e astrazione geometrica e tra
realismo sociale e trasfigurazione. Anche Scaringi fa la sua scelta di campo,
condivisa con maestri e compagni. Sceglie di raccontare l’uomo, la sua
solitudine, le fatiche del lavoro e la quotidianità dei gesti minimi e delle
piccole cose. Perizia grafica e tonalità cromatiche in predominanza fredde sono
gli strumenti che adotta per raccontare la sua visione e sentirsi così
partecipe del dramma collettivo. Supera il dato reale nella pura parvenza
fenomenica per scoprire nella terra e negli uomini i segni di quella sofferenza
che ciascuno porta con sé; racconta il dramma esistenziale, storie di
emarginazione e soprusi che nella comunanza di vissuto si rivelano tragedie
collettive. È questo il tratto distintivo della sua pittura ma anche la caratteristica
formale di un determinato periodo – i decenni immediatamente successivi al
conflitto mondiale – durante il quale, “sull’onda lunga delle avanguardie” [1], l’arte
torna al romanticismo[2], a
quella “necessità di espressione” che da sempre costituisce l’aspetto più
genuino dell’arte, origine e fine di ogni creatività.
Nel dopoguerra la partecipazione alla
condizione umana accomuna non pochi artisti. Alla fine della seconda guerra
mondiale, infatti, prima e durante il sorgere delle ricerche informali, si
assiste al riemergere nell’arte europea di una tendenza interessata ad indagare
l’essere umano e il suo destino nel mondo contemporaneo. Un nuovo tipo di
figurazione rievocativa di esperienze prebelliche, interpretate però alla luce
delle tragedie recentemente vissute. Figure sospese, dilaniate o ferite,
divengono protagoniste di nuovi modi espressivi, che fanno proprie le poetiche
della distorsione, della lacerazione, del frammento. Ed è quest'ultima, non
alternativa ma compendio delle prime due, quella che più connota la fase matura
di Scaringi, che usa i frammenti come residui dell’esistenza, testimonianze
memoriali da ricomporre sulla tela per rintracciare il filo dell’unanime
vissuto.
Condivide con il fratello Franco la prima
formazione nella bottega del padre, apprezzato scultore. La completa nell’Istituto
d’Arte di Bari, sorto nel 1953 per rispondere alle molteplici esigenze formative
che provenivano dal territorio, seguendo gli insegnamenti di Vito Stifano, Roberto
De Robertis e soprattutto di Francesco Spizzico, l’artista che forse meglio di
ogni altro ha saputo catalizzare le istanze di rinnovamento della sua
generazione trasferendole a quelle successive. Sono soprattutto le opere degli
esordi a testimoniare un rapporto di filiazione diretta con il noto pittore
barese, dal quale sembra desumere una costante di tutta la sua produzione: la
capacità di costruire con il colore, quell’aspra plasticità che fa assumere a
figure ed oggetti una sensibile propensione alla tattilità. Sono gli anni a
cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, un momento in cui si tenta di costruire
una tradizione estetica regionale, soprattutto attraverso il paesaggio, riconosciuto
come il tema cardine per la costruzione e il riconoscimento della pugliesità.
Una tendenza recepita anche da altri e ad altre latitudini, come attesta Guido
Ballo che, in occasione della I Mostra Regionale Pugliese di Pittura, allestita
al Castello Svevo di Bari nel 1962, a cui prese parte anche il nostro pittore,
dichiara: “Sono convinto che il linguaggio diventi più internazionale, come
valore, quando più conservi gli accenti di una particolare inconfondibile civiltà,
e quindi di un clima di un costume”.
La mostra regionale è l’erede del Maggio di
Bari, manifestazione di risonanza nazionale che nel 1956 “cambia segno nella
gestione”, incamminandosi verso significative “aperture a tendenze nuove, a
generazioni ed ambienti culturali diversi del Paese”[3]. Ed è in
questo momento che Ivo Scaringi fa la sua comparsa sulla scena pugliese, aggiudicandosi,
nel 1958, il Premio “Nicola Lippolis”, destinato ai giovani artisti, con Paesaggio pugliese, opera che Guttuso
avrebbe premiato ma che la commissione di cui faceva parte preferisce solo
segnalare. Alla stessa manifestazione si ripresenta anche nei due anni
successivi con un nuovo Paesaggio
pugliese e con un Ritratto di
schietta impronta figurativa, non senza ragionate semplificazioni formali, le
stesse che connotano gli autoritratti degli anni immediatamente precedenti. È
quello il periodo in cui matura il suo figurativismo di matrice esistenziale,
percorso da “un caldo impegno umano e poetico che egli trasferisce non solo sul
piano della drammatica cronaca quotidiana e della polemica sociale ma anche su
quello di una più ampia comprensione dei problemi dell’uomo”[4]. Ne
emerge chiaro un interesse per la realtà meridionale, un impegno sociale, una
precisa “moralità” come l’ha definita Pietro Marino, facendo eco a Filippo Alto
che considera la pittura di Scaringi “atto di inquieta, sincera frattura nei
riguardi di una società irta di compromessi ed ingiustizie: la forza morale, di
cui è dotata, la eleva a dimensioni di autentica partecipazione al riscatto
dell’uomo”[5].
Il lavoro dell’artista si affaccia alla
ribalta in un periodo ricco di fermenti per la cultura in Puglia. Dopo la
guerra, per reazione alle precedenti chiusure dettate dal fascismo, si verifica
da parte dei pittori più giovani un decisivo interesse verso i linguaggi à la page, cubismo ed espressionismo in
primis. Sono gli anni della nascita del Maggio di Bari, del Premio Taranto e di
altre manifestazioni similari, di scelta tra emigrazione e permanenza. Scaringi
sceglie di restare e di impegnarsi in prima persona nel rinnovamento dell’arte
in Puglia, insegnando Decorazione pittorica all’Istituto d’Arte di Bari tra il
1960 e il 1969, ma soprattutto costruendo un suo stile e una sua mitografia. Recependo
i molteplici stimoli che pervenivano da più parti, si prefigge lo scopo di
approdare ad una pittura che possa concretamente definirsi moderna e
realistica. Il suo è un realismo lontano dalla pedissequa rappresentazione,
dalla riproduzione banale di trulli, ulivi e raccoglitrici di grano, ma è un
modo concreto di indagare la realtà contadina, di penetrarla con intento
sociologico, in un momento di transizione alla disumanizzante realtà
industriale, il tutto con sincera partecipazione al comune dolore. A testimoniare
il suo impegno civile, condotto fin dai primi tempi, sono opere come Corpo riverso del 1963 (nella Galleria
Civica di Bitonto), L’occupazione delle
terre del 1963, Tarantolata del
1963, Bracciante del 1964, che già
nel titolo rivelano una specifica attenzione alla realtà pugliese, assunta però
non in chiave localistica e provincializzante ma a simbolo di una sofferenza
generalizzata. Ogni suo foglio e ogni sua tela assumono una forza emblematica,
rappresentando una situazione generale, di cui egli esaspera i termini per
condurli ad una definizione figurativa perentoria. È palese nella sua pittura
“l’acquisita consapevolezza della condizione umana” capace di andare oltre la
polemica sociale per farsi “disperata testimonianza della tragedia del vivere e
del morire”[6].
Lo stile di Scaringi rientra in un campo
d’indagine a vasto raggio, non connesso a movimenti precisi, ma che accomuna
autori di differente formazione, desiderosi di recuperare la funzione sociale
dell’opera d’arte. Ferma restando l’eterogeneità e l’indipendenza delle singole
proposte, emblematico per il contesto italiano è il sorgere a Milano del
Realismo esistenziale, movimento artistico affermatosi tra la seconda metà
degli anni Cinquanta e
l’inizio del decennio successivo,
molto più vasto dei soli nomi a cui la critica abitualmente lo restringe[7].
Inquadrabile nella più ampia cornice della Nuova Figurazione postbellica, il
Realismo esistenziale è un modo di interpretare il mondo a cui gli artisti si
accostano con diversi gradi di (tras)figurazione, mossi da un comune modo di
sentire e percepire l’esistenza, tra sofferenza e solitudine. È il modo di
Vespignani, Ferroni, Guerreschi, Romagnoni ma anche, in senso più ampio, di Francis
Bacon e di Alberto Giacometti, indiscussi protagonisti di una stagione
internazionale dell’arte che alla pungente ironia della Pop Art contrappongono
la drammatica consapevolezza della condizione umana.
Al pari di molti suoi colleghi anche la peculiare
figurazione di Ivo Scaringi, enigmatica ed aspra, nasce da una riflessione
sulle vicende del mondo contemporaneo. L’alienazione dell’uomo è restituita in
una selva di icone, simboli ed emblemi che cessano di essere unicamente
riferiti al soggettivismo dell’artista per illustrare in senso generale la
condizione disumanizzata dell’esistenza. Gli interessano i braccianti, i derelitti,
gli emigranti, simboli di dolore, stanchezza fisica e arretratezza teorica, ma
riscattati da un senso di dignità umana. È una pittura d’emergenza, una pittura
d’allarme. Un figurativismo di stratta osservanza che in Italia annovera, in
tempi coincidenti, artisti di primo piano, a Milano e a Roma, da Renato Guttuso
ad Ennio Calabria. Scaringi fa propria la cultura moderna dominandola
dall’interno, nella misura di una vera esigenza di espressione poetica. Inserendosi
prontamente nella scia degli innovatori, avverte i limiti culturali della
tradizione figurativa pugliese che reinterpreta in chiave espressionista. Egli
crede fermamente che il discorso figurativo debba essere riflessione dell’uomo
sull’uomo. I primi e migliori interpreti della sua maniera sono i colleghi
pittori: Luigi Guerricchio dichiara di aver voluto fare lui stesso alcuni dei suoi
dipinti “per quel razionale segno sanguigno che sempre attraversa, spietato, i
colori più dolci”; Salvatore Salvemini, invece, lo loda per i suoi “orizzonti
umani ed etici profondamente sentiti”[8].
Con loro nel 1963 allestisce una mostra di
incisioni alla Scaletta di Matera e l’anno dopo tutti e tre insieme, con il
fratello Franco e altri cinque pittori pugliesi (Enrico Landi, Ugo
Martiradonna, Antonio Nuovo, Francesco Prelorenzo, Michele Vallarelli), danno
origine a “Nuova Puglia”, gruppo di ricerca sorto con l’intento svecchiare la
pittura pugliese, fino a quel momento consolidatasi in immagini oleografiche e
stereotipate. Precipuo obiettivo del gruppo era il “recupero espressivo della
nuova realtà meridionale”. Espressione ossimorica che unisce il rinvenimento di
una precisa tradizione locale all’esigenza del racconto della nuova realtà
meridionale. Emblematica appare l’opera Natura
morta del 1966, esposta in quello stesso anno alla Biennale Nazionale
d’Arte Contemporanea di Bari, ultimissima propaggine del Maggio, e nel 1968,
sempre a Bari, alla mostra Puglia ’70. Nella composizione il genere della
natura morta si trasfigura in una ricerca pittorica scomposta, condotta per
frammenti su campiture cromatiche piatte, riflesso di una condotta espressiva
che tiene conto di quanto altrove si va sperimentando, ma anche di una vecchia
meridionalità che si va frantumando sotto i colpi dell’industrializzazione
incipiente.
I pochi anni di attività del gruppo sono anni
di grandi cambiamenti, gli anni della contestazione studentesca, delle prime
esplorazioni spaziali, della comparsa e della consacrazione della Pop Art alla
Biennale di Venezia. Scaringi avverte le mutazioni sociali, economiche ed
estetiche in atto maturando un nuovo stile, imbastito da tonalità metalliche,
memori dello sviluppo industriale italiano, mentre i frammenti, simili ad
ingranaggi dell’esistenza, chiavi di lettura della vita collettiva, divengono
assoluti protagonisti. Valva sonora, Grembo tecnologico, Referto,
Ricomposizione, Inventario sono opere popolate da ritagli, forme radiografiche e
sagome, che a non troppo velati riferimenti pop (prossimi più ai modi di Renato
Mambor che a quelli degli americani) uniscono specifiche riflessioni sulle più
recenti tendenze costruttive e programmate. Realizzate tra il 1970 e il 1975,
queste opere tracciano visivamente l’ineluttabile forza alienante delle nuove
forme tecnologiche, alludendo ai profondi cambiamenti che in quel momento vive
la realtà pugliese, che a Taranto, in anni coincidenti assiste alla nascita e al
primo sviluppo dello Stabilimento Italsider, il maggior complesso industriale
per la lavorazione dell'acciaio in Europa.
Nel passaggio agli anni Settanta l’esperienza
di Nuova Puglia si è esaurita e sulle sue ceneri, nel 1971, è sorto un nuovo
collettivo, “Immaginazione e Realtà”, reso noto in regione da una mostra di
grande impegno allestita alla Pinacoteca Provinciale di Bari, diretta all’epoca
dalla lungimirante Pina Belli D’Elia. Cambiano gli aderenti (al posto di Nuovo,
Prelorenzo e Vallarelli, figurano Addamiano, Grillo, Morelli e poco più tardi
il giovane Dellerba) ma i propositi di rinnovamento permangono, incentrati su
comuni ambiti d’indagine: il rapporto dell’individuo con i miti della civiltà
tecnologica e i diffusi problemi di libertà e giustizia nel mondo
contemporaneo.
Gli anni Ottanta segnano una nuova svolta.
Scaringi non ha mai abbandonato la figurazione, ma le ricerche di matrice
programmatica rischiano di farlo allontanare dall’uomo, obiettivo e fulcro di
tutta la sua ricerca. Per questo torna ad una figurazione più sensibile in
termini di rappresentazione grafica e resa chiaroscurale, trovando in pochi
elementi, l’osso di seppia, il bucranio, il nodo, i residui significanti di
un’esistenza dolorosa, di un diffuso e sottaciuto malessere. Per meglio
comprendere il passaggio compiuto nel decennio appare utile il confronto tra Oggetti nello spazio della fine degli
anni Settanta e Sequenza di oggetti del
1988. In entrambe le composizioni cinque oggetti si ergono su sfondi neutri.
Asse di simmetria è un osso di seppia, ma nella prima, a destra e sinistra, si
collocano due coppie di oggetti, uno naturale l’altro meccanico, nella seconda
gli oggetti naturali sono affiancati a panni annodati, questi ultimi un topos iconografico e concettuale della
produzione matura dell’artista. Ma è la rappresentazione a segnare lo scarto
più evidente. Mentre la prima, fredda e analitica, appare indagare gli oggetti
con attitudine scientifica, segnando in maniera netta i piani di luce ed ombra,
la seconda appare più emotiva e partecipata, con trapassi chiaroscurali morbidi
e sfumati.
Rispondendo positivamente ad una generale
temperie di riscoperta dei temi e dei mezzi pittorici tradizionali, il pittore negli
anni Ottanta recupera la figura, ritrovandola però non solo nella vita
quotidiana, ma nell’arte. Riprende atmosfere liberty (Ritratto di Anna, 1984), reinterpreta De Nittis (Ritratto di Madame Lèontine, 1985) e Géricault,
la cui Zattera della Medusa,
contestualmente riformulata in area apulo-lucana da Luigi Guerricchio, Beppe
Labianca e Leo Morelli, continua ad essere emblema della deriva della società
contemporanea, ma soprattutto riscopre il romanico, lo stile che autenticamente
connota la terra pugliese e che a Trani ha uno dei suoi templi più belli e
celebrati. Nascono le sue Visite in
cui prosegue l’estetica del frammento che ora, abbandonate le sagome del
decennio precedente, assume una forte plasticità, esaltata da una predominante
tonalità verde (derivata dalla precedente serie Vegetazione) e da improvvisi bagliori che illuminano pesanti
oscurità, facendo emergere animali stilofori e decorazioni scultoree,
testimonianze di un mondo arcaico, oscuro, privo persino di una precisa collocazione
cronologica, indefinito incipit di una stratificazione memoriale che giunge
all’età contemporanea. Pietre, volti, mani, sono i lacerti superstiti di un
percorso a ritroso che giunge a scandagliare l’esistenza umana attraverso ciò
che ha saputo produrre. Composizioni raffinate, in cui vi è un senso di sospensione
e di fluttuazione di immagini, cesellate da un tratto pittorico delicato ma
incisivo, talvolta filamentoso, altre dilatato in campiture più vaste. Rispondendo
alla oramai consueta estetica del frammento, Scaringi persegue anche nella sua
produzione ultima l’intento antropologico, sempre condotto mediante una
dolorosa gestazione estetica. Oggetti, elementi paesaggistici e volti diventano
altro dalla loro sollecitante immagine iniziale, poiché portano il peso di
un’alienazione non riscattata, di un’inquietudine che permea l’esistenza senza
possibilità di remissione, tra memoria e truce consapevolezza. È questa la
rappresentazione estrema di un artista che non ha mai dimenticato l'uomo, che
come pochi ha saputo interpretarne visivamente le inquietudini, contribuendo a costruirne la memoria e a tracciarne la storia.
[1]
Ibidem.
[2]
Alla stessa temperie culturale fanno riferimento anche le considerazioni
critiche di Etienne Salaberry (Heleta, 1903 – Bayonne, 1981), che
del nostro paese ha detto “L’Italie c’est le classicisme et le romanticisme”.
[3] P.
Marino, Francesco Spizzico, Agenzia
d'arte moderna, Bari 1983,
[4] D. Di
Palo (a cura di), Ivo Scaringi, Mario
Adda Editore, Bari 1999,
[5] Idem,
[6] Idem,
[7] Il primo a parlare di Realismo esistenziale è stato Marco Valsecchi nel
1956. Gli artisti raggruppati in quel vasto movimento artistico non si
costituirono mai in un gruppo organizzato, ma rimasero uniti da un senso di
appartenenza ad una corrente artistica e di pensiero resa visibile da alcune
esposizioni collettive. Col tempo la critica ha ritenuto di dover circoscrivere
ai soli Ceretti, Guerreschi, Bepi Romagnoni, Vaglieri Banchieri, Ferroni e Bodini, ossia
quelli che più degli altri tengono fede ai principi estetici e sociali,
collocando il Realismo esistenziale fra il 1954, anno del diploma accademico di
Guerreschi, e il 1964, anno della prematura morte di Romagnoni in un incidente
occorso durante una sessione di pesca subacquea al largo della Sardegna. Per
approfondimenti AA.VV., Realismo esistenziale 1954 - 1964,
Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2005.
[8] Considerazioni
riportate sul catalogo della mostra allestita alla Galleria “Il Cavalletto” di
Molfetta, nel 1964, riprese in D. Di Palo (a cura di), Ivo Scaringi, cit.,
Ivo Scaringi
UN TESTAMENTO UMANO E ARTISTICO IVO SCARINGI
Nicola Scaringi
Una mente, una mano, una tela. Una tela che non era il luogo dove
esercitare le sue pur comprovate doti tecniche. Una tela che era piuttosto il
luogo dove rappresentare le sue tensioni interiori, dove portare alla luce le
problematiche sociali degli anni sessanta e settanta, un luogo dove denunciare,
ad esempio, la condizione lavorativa delle donne nei campi, chine a raccogliere
le olive cadute a terra, sottopagate, per dodici ore al giorno. La tela era il
posto dove far rivivere il dramma del pesce spada appena pescato nell'atto
dello smembramento per mano di alcuni pescatori. Una vita che se ne va, quella
del pesce spada, per la sopravvivenza di altre vite, quelle dei pescatori e
delle loro famiglie. La tela era il luogo dove si affollano i pensieri dell'artista
nel momento in cui, in estate, si sofferma a guardare la luna piena, così
luminosa, che spunta tra i rami degli alberi, inquietanti nella loro penombra.
Sono passati vent'anni dalla sua ultima pennellata. L'ultima tela è rimasta sul
cavalletto, incompiuta. Era una autoritratto. Non è uno dei soliti autoritratti
che siamo abituati a vedere. No. È l'autoritratto di una persona che sta
morendo. Lì c'è la disperazione mista a rassegnazione, lì c'è tutta la
complessa psicologia di chi sa di essere di fronte all'epilogo della propria
vita. Lì c'è un testamento umano e artistico. Sta a noi saperlo cogliere. Ivo
Scaringi era una persona mite, ma aveva una mente capace di porsi grandi
interrogativi esistenziali. A qualcuno di questi riusciva a darsi una risposta
e ce l'ha indicata: i luoghi dell'arte. Le chiese romaniche, gotiche,
rinascimentali, le pinacoteche così intrise di storia e di vicende umane e
artistiche, le gallerie dove sperimentare le nuove tendenze del mondo dell'arte
sono luoghi dove rifugiarsi per scappare dalla crisi della società moderna, dal
suo mondo effimero, dal suo abbrutimento, dal caos della vita di ogni giorno.
La via d'uscita è nella riscoperta delle nostre radici storiche, gli
scalpellini, i muratori, le maestranze che con il loro lavoro hanno lasciato a
noi patrimoni di inestimabile valore, come la Cattedrale di Trani, come il
colonnato di Gianluigi Bernini a Roma, come la cupola di Filippo Brunelleschi a
Firenze. É lì, nell'umiltà di chi ha lavorato duramente, giorno dopo giorno, a
mani nude, per pochi soldi, che si nasconde la bellezza del modo che ci
circonda. A noi sta il compito non di passarvi d'avanti noncuranti, ma di
soffermarci ad ammirarla ed apprezzarla, così come oggi dobbiamo fare di fronte
ai quadri di Ivo Scaringi e dei suoi amici Magdalena Asteri, Luigi Basile,
Mario Colonna, Antonio Laurelli, Nicola Lisanti, Benito Gallo Maresca e Massimo
Nardi. Grazie a loro, grazie alla loro sensibilità umana e artistica, oggi Ivo
Scaringi rivive al nostro fianco e celebra insieme a tutti noi questa mostra
che è una festa dell'amicizia, quella disinteressata, quella che farebbe
scalare una montagna, quella di chi si ricorda di chi è stato meno fortunato
degli altri ed oggi non è più con loro, ma per fortuna ci sono gli amici a ricordarlo.
Ilsitodellarte