APOLOGIA DEL NUDO AD OGNI COSTO. Note su Amedeo Del Giudice, pittore
APOLOGIA DEL NUDO AD
OGNI COSTO.
Note su Amedeo Del Giudice, pittore mostra personale
A cura di Massimo Nardi
Presentazione critica di Gaetano Mongelli
Art director Franco Cortese
Presso la galleria d’Arte Contemporanea Spazio START
Via Cattedrale 14 Giovinazzo (Ba)
Vernissage il 18
dicembre 2018 alle ore 19:00
Fino al 7/1/2019
Fino al 7/1/2019
La lunga stagione del
Novecento si è esaurita trascinando con sé, tra ascese inebrianti e precipitose
cadute, i miseri avanzi delle sue utopie. Azzerando, di conseguenza, ogni
possibile sospetto di omologazione e di appiattimento della coscienza creativa
che, suffragata da un massimalismo ideologico di dubbia vocazione democratica (per
aver imposto, a destra a manca, le ragioni dei più a scapito delle istanze
della creatività individuale), rendeva difficile o addirittura negava alla
radice la sacrosanta ricerca della propria identità.
Uno status inaccettabile, tanto penalizzante da impedire ai singoli
l’affermazione del proprio punto di vista: secondo un bisogno di autonomia
imprescindibile per chiunque voglia camminare con le proprie gambe e pensare
con il proprio cervello. Un’autonomia che sdoganata dalla gabbia dei pregiudizi
(all’insegna di affondi semanticamente penetrabili, benché carichi di una
straordinaria forza emblematica), caratterizza – per vocazione naturale – la
pittura di Amedeo Del Giudice: protagonista silenzioso, attivo da oltre
cinquant’anni tra quegli operatori dell’immagine spesso emarginati dalla
cosiddetta «critica elitaria»; ma solitamente coniugata in,majestate,da «Soloni di turno» - di volta in volta intruppati e
faziosi – che,poi, di elitario in sostanza hanno ben poco.
Dal momento che, con sempre
più insistita frequenza e per varie ragioni, disertano il più rischioso dei
loro compiti. Ché, tutto sommato, è quello di aiutare a comprendere ad angolo
giro, senza preclusioni mentali o vizi di forma, il mondo della visione
scandagliandone i più nascosti ed enigmatici recessi. Un mondo che, da pittore
nato, Del Giudice ha puntualmente messo al riparo dalle sopraffazioni, dai
conflitti e dalle macerie del secolo scorso. Riscattando allo scoperto il
desiderio «di navigare sulle rotte dell’antico», in veste di nocchiero mai
sazio di cultura figurativa: una sapientia
«tam antiqua et tam nova» che, pur secolarizzata, non solo dà risposte
all’Edipo di turno, ma continua a porgli domande.
Difendendo scrupolosamente,
lo vedremo nel prosieguo, la rappresentazione del reale e del simbolico,
dell’immaginario e del mondo degli impulsi. E anteponendo, perciò, le alchimie
del Passato alla sperimentazione di nuove impuntature lessicali.Quelle che,
alla resa dei conti, nulla o quasi avevano da spartire con la vertiginosa, e
solo di rado «alternativa», parabola del modernismo.Un periodo controverso come
pochi per aver privilegiato sulla sua strada il momento progettuale
all’operazione estetica. Ché, muovendosi a senso unico in questa direzione di
marcia, attribuiva a ciò«il merito esclusivo dell’invenire».
Vi sono, infatti, modi e modi
d’essere moderni. Ma il più rodato, certo il più clamoroso – in virtù della sua
congenita, e sovente preconcetta, iconoclastia – è e rimane quello che fa tabula rasa di miraculae mirabilia, rinvenienti
– appunto – dal Passato. Sia profanando alla luce del sole il senso più
autentico e ancestrale della tradizione, sia negando a spada tratta e senza
mezze misure la centralità dell’uomo e, con essa, la natura e la realtà che ci
circonda. È l’avventura, va da sé, delle avanguardie che, pur stimolanti ed
impulsive, sanno suscitare – nel proprio alveo –«piani inclinati dove anche chi
non ha fiato per correre può scivolare», portato via dai flussi spumeggianti e
incontrollabili della corrente.
Eppoi, questo Del Giudice lo
sa bene, c’è un modo più autentico e coerente di vivere le inquietudini, le
contraddizioni e le rare estasi del nostro tempo. Di ascoltare interrogativi
che, consapevoli del mistero che ci avvolge, non possono restituirci risposte
certe. Perché, già dagli esordi, la strada intrapresa dal pittore campano(cercando
di trarre per osmosi dal passato la rilettura del presente), non ammetteva
improvvisazioni per così dire «presuntuose» o tali da legittimare un facile e superficiale
epigonismo.
Optando, in primo luogo, per
la costruzione sontuosa dell’«imposto»da rendersi persuasivo e convincente dal punto
di vista connotativo. Si vedano, ad esempio,i suoi Nudi muliebriconcepitia mo’ di sirene tentatrici che finiscono per
ammaliarci, incidendo – psicologicamente – sulla durata e sulla persistenza del
«rimembrare»: come fossero parole, non solo icone, capaci di imprimersi nella
nostra mente senza doppismi o arbitrarie forzature. Parole immediatamente
comunicanti la realtà di cui sono portatrici.
Una realtà che, d’altro canto,
traguarda la mera prospettiva del Nudo per
il Nudo, approdando metaforicamente
in una dimensione «altra»del racconto: in un territorio privilegiato della
memoria che restituisce fotogrammi surreali o interni di ambienti dalla
configurazione essenziale ed onirica. Ambienti dove fugaci ed improvvise
accensioni di luce, nella penombra di ammutoliti proscenî, compongono – sulla
preziosa texturedei dipinti –
presenze e «apparizioni» di donne:seducenti creature, ripescate dal mare magnum di archetipi ormai trascorsi,
sebbene ancora palpitanti.
Avvolte in un’aura che non
conosce la mortificante tirannia del tempo, mentre tesse allegorie che – trafitte
dai dardi di Eros – parlano di «grazia», accanto alla complice voluttà che
spinge i Figli di Adamo verso l’«eterno
femminino», traduzione di dasEwig – Weibliche: la locuzione goethiana che
esprime la femminilità nella sua immutabile essenza. Lo si desume, in
particolare, da un’opera in cui la figura muliebre si sporge in avanti,
schermando con una mano – per una sorta di malcelato pudore – la propria nudità:
imago emblematicamente ispirata all’Eden della contemporaneità, non senza
supporti concettuali derivati dai testi sacri della nostra storia. Dalla Cacciata dei progenitori che Masaccio
affrescò non oltre il 1427 nella Cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine
a Firenze (Genesi, 3, 8-24), alla borghesiana
Veritas filiaTemporis.Un marmo,
immaginato per un progetto più sofisticato ed articolato, che Gianlorenzo
Bernini – caduto in disgrazia presso la corte papale per i fatti del Campanile
di San Pietro (di cui, in seguito, fu deciso l’abbattimento) – scolpì dopo il
febbraio 1646 «per autodifesa» contro i suoi detrattori negli anni del
pontificato di Innocenzo X Doria – Pamphilj.
A dimostrazione del fatto,
ove occorresse ribadirlo, che il passato si riassapora, non si rimastica.
Perché fa parte a tutti gli effetti di un continuum
storico che non può mai dirsi compiutamente esperito: e che, pertanto, non
è né antico né moderno, ma assolutamente presente. Una precisazione che
estenderei pure al Nudo sdraiato di
spalle, evocato sotto traccia dalla Venere
allo Specchio (Londra, National Gallery), che Velázquez dipinse
presumibilmente nel 1651, dopo il secondo viaggio in Italia. L’unico nudo che
ci sia rimasto della sua produzione: forse da identificare con quello della
pittrice Flaminia Trivia, amante – come si sa – del maestro spagnolo, da cui
ebbe un figlio.
Ma questa è un’altra storia.
In grado, però, di far luce sulle tangenze culturali di Del Giudice, sul suo
lirismo intriso di attese e di silenzi pensosissimi; di rassegnate
contemplazioni; di corpi denudati da una Vanitas
perennemente giovane e verginale; di rifugi scavati nelle cortine di un
tempo che è al di fuori del tempo. E, per finire, di allusioni desumibili dalla
straordinaria potenzialità dell’aliquid
pro aliquo, racchiuso nella carrellata simbolica che Amedeo destina ai suoi
personaggi per differenziarli – uno per uno – sullo schermo dell’apparenza.
Dal momento che
l’indeterminatezza dei simboli, adottati a tal fine da Del Giudice, assume un
significato di più ampio spettro. Poiché, al contrario dell’allegoria, il
simbolo si interpreta e reinterpreta pure inconsciamente, realizzando così «la
fusione dei contrari» e «comunicandoci perfino l’indicibile».Anche lanciando,
in chiave criptica, segnali che vanno colti per quel che sono.A metà strada tra
la rivelazione e l’«inespresso», tra il sogno che attende il risveglio, tra il
«definibile» e il «definitivo»: segnali riscontrabili per analogia nelle opere
esposte a Giovinazzo che, tra le altre cose, attingono nuove sostanze iconografiche
ed ulteriori spunti ideativi dal pozzo senza fondo della simbolica classica.
Cominciando
dal rosso che «insanguina» un racemo di amorini neorinascimentali di vaga
ascendenza raffaellesca, posti vis-a-viscon
la carcassa putrescente di un pesce verde, bavoso e deliscato: una sorta di
illustrazione, sciolta negli acidi del dissenso, in cartapecorita come può
esserlo la copertina di una cinquecentina intrisa di umidità;un’affiche
dal
fondo cremisi, come il colore della stagnola che avvolge un torroncino da
scartare a Natale; un «manifesto» che, in definitiva, esplicitandosi con
cadenze argute e spiazzanti si trasforma in un messaggio subliminale: in una
vera e propria «manifestazione» di sé.
Un
messaggio che, a dar retta all’economia complessiva del discorso, include altri
«accidenti» figurativi, non meno intriganti e fascinosi. Al pari della colonia
di Meduse che invade il paesaggio
visivo di un’adolescente: transfert
simbolico,e non terribilistico, che dalle mostruose Gorgoni (Medusa, Eurialo, Steno) giunge ai giorni nostri solcando le
acque insulari della Grecia; simulando
le deformazioni della psiche, «dovute alle forze pervertite di tre pulsioni:
socievolezza, sessualità, spiritualità».
La Medusa,della «stagnazione vanitosa»,
della colpevolezza che si alimenta e prende forza «dalla vana gloriosa
esaltazione dei desideri». La Medusa
che va combattuta sforzandosi di realizzare sulla Terra «la giusta misura,
l’armonia»: un auspicio ben indicato dal fatto che, a mo’ di rifugio, il Tempio
di Apollo, dio dell’Armonia, fosse aperto ai perseguitati dalle Gorgonie dalle Erinni. La stessa Medusa dallo
sguardo pietrificante, la cui testa – secondo la narratio ovidiana – fu mozzata da Perseo, eroe protetto da Pallade
Atena (Metamorfosi, IV, 769-803).
Un «accidente»
iconografico, quindi, uno fra tanti che trova il suo pendantideale nella Melancholia
I. Ovvero nella Malinconia,di
saturnina derivazione, che Amedeo Del Giudice riprende dal Dürer: un’incisione
a bulino (mm 289 x 239), che il maestro tedesco monogrammò e datò al 1514,
densa di riferimenti esoterici provenienti dall’«immaginario alchemico», tra
cui il «quadrato magico». Ennesima e dirompente manifestazione di uno stato
d’animo inquieto, sempre in bilico tra pensiero e azione,mentre popola una
lastra di simboli che attendono il risveglio dall’oscurità. La rinascita di un’umanità
che «deve ritrovare le proprie ali per giungere ad una condizione angelica
nella quale tutto è luce e alba. E comprensione del mondo».
Gaetano Mongelli