Mozzafiato
Mozzafiato
Opere di: Dario Agrimi
A cura di: Lia De Venere
Luogo: Galleria Cattedrale, Largo Cattedrale 9, Conversano (BA)
Inaugurazione: 29 giugno 2019, ore 19
Durata: dal 29 giugno al 13 settembre 2019
Orari: martedì-domenica 17-20 e su appuntamento
Contatti: 339 3916903 - 080 9672994
Email: info@galleriacattedrale.it
Catalogo in galleria
Ironico,
autoironico, irriverente, sfrontato, insolente, questi e tanti altri gli
aggettivi che possono essere usati in merito al suo lavoro. Di certo Dario Agrimi
segue da tempo e con costanza un percorso coerente, in cui affronta problematiche
di grande rilievo e di scottante attualità, che agitano il mondo contemporaneo,
difficili da definire e soprattutto molto complicate da risolvere. L’artista si
limita ad additarle, senza voler indicare soluzioni. Lo fa senza supponenza, a
volte anche con un filo di cinismo. Non va dritto al cuore dei problemi, ma ci
si avvicina lateralmente, lascia che allo stupore del primo impatto con le sue
opere si sostituisca piano piano, in chi guarda, la consapevolezza delle
criticità, l’assunzione di responsabilità, la ricerca di rimedi praticabili.
Così, il sorriso che suscitano a prima vista molte sue opere, frequentemente lascia
il passo a un pensoso silenzio.
Un
Nazareno improbabile
Dubito
fortemente che Dario Agrimi possa entrare nel cast di un eventuale remake
di Jesus Christ Superstar, il cult movie diretto da Norman Jewison nel
1973. Certamente, sa benissimo anche lui che non basta mettersi addosso
qualcosa come sette o otto metri di tela bianca e farsi fotografare mentre allarga
le braccia in segno di accoglienza per meritarsi il ruolo del Salvatore. Del
resto basterebbe già l’espressione palesemente beffarda del suo viso a sabotare
irrimediabilmente qualsiasi chance di essere cooptato come protagonista
del film.
La
povertà come destino
Il suo
viso è nascosto, ma l’atteggiamento del corpo della mendicante dà conto di una
vita di stenti, di un destino che ha piegato il fisico e l’animo, rendendo vana
ogni speranza di riscatto. Per un attimo ci auguriamo che si tratti di una
figurante, persino di una falsa mendicante, quasi vorremmo vederla alzarsi,
infilare in una borsa gli stracci sporchi che indossa e andare via con abiti
decenti. Non sarà così, purtroppo. Quella donna costretta a chiedere
l’elemosina, rimarrà lì a ricordarci che le diseguaglianze sociali oggi si sono
aggravate, che il benessere di pochi ha come contraltare il disagio di tanti.
La
bellezza ferita
Alla leziosa
statuina di Capodimonte con il braccio spezzato e sanguinante Agrimi affida un
messaggio potente. Non ha tentato di ricostruire l’arto mancante, ma ha dato al
sangue il compito di ricordarci che la bellezza sfregiata non sempre è
recuperabile, che l’arte va protetta da insidie di ogni tipo, non solo dai
disastri naturali, ma anche e soprattutto dalle azioni insensate degli uomini,
dalla damnatio memoriae, dalle censure di qualsiasi genere.
Neri
tutti
La
folla di statuine dipinte di nero – uomini, donne, bambini – riunita da Agrimi allude
attraverso la metonimia al fenomeno delle migrazioni. In ogni epoca gli uomini
si sono spostati da un’area all’altra del pianeta, da un continente all’altro, alla
ricerca di migliori condizioni di vita, in fuga da calamità naturali, guerre,
povertà. Neri, in realtà, siamo stati in altri tempi, non troppo lontani, anche
noi. La storia del Novecento ci insegna, infatti, che tanti italiani
provenienti da zone povere della penisola si sono spostati in Europa o oltre
Atlantico per trovare lavoro, in fin dei conti per sopravvivere. Neri, ma non
solo, sono coloro che oggi attraversano il Mediterraneo rischiando la vita o intraprendono
il lungo e doloroso cammino attraverso la rotta balcanica, per giungere in
Europa.
Senza
via d’uscita
Di
fronte alle mani maschili saldamente aggrappate all’orlo di un vaso, il
pensiero corre alla novella di Luigi Pirandello intitolata La giara. Ci ricorderemo
di Zì Dima Licasi, l’artigiano rimasto intrappolato nella grande giara che, per
conto di don Lolò Zirafa, stava restaurando. Se la surreale diatriba tra i due
si risolveva a favore di Zì Dima, Agrimi suggerisce, invece – attraverso il
titolo La fede è la soluzione più semplice – ben altro finale alla vicenda
del proprietario delle mani, facendo del vaso la metafora del disagio
esistenziale di molti individui, dell’impossibilità di uscire da situazioni
drammatiche, dell’accorata e spesso inascoltata richiesta di aiuto di chi è in
difficoltà.
Altre
opere figurano in mostra, alcune in parte improntate da quella componente
narcisistica che ogni tanto prende il sopravvento nel suo lavoro, altre originate
dalla sua rodata attitudine al calembour, dalla sua capacità di dare
concreta sostanza a modi di dire. Con l’obbiettivo – come sempre – di
sostituire all’ovvio l’inatteso, manipolando le immagini allo scopo di creare in
chi guarda perplessità, a volta addirittura vero e proprio imbarazzo, gettando
nello stagno dell’indifferenza tante piccole pietre nella speranza che creino
grandi cerchi nell’acqua. Che diano cioè motivi per pensare e, di conseguenza, spinte
ad agire in qualche maniera per cercare di rendere questo mondo un luogo più ospitale
e più giusto. “L’arte non è ciò che vedi, ma ciò che fai vedere agli altri”
affermava del resto Edgar Degas.
Lia De Venere